Sono i giorni degli chantilly – gli stivali di gomma indispensabili per guadare la melma che copre ogni cosa – e del puzzo che, con l’acqua, la nafta e i liquami, invade le strade. I giorni dell’attesa, negli appartamenti dei piani alti, dove le famiglie alluvionate trovano un rifugio asciutto in cui aspettare che il fiume si ritiri. I giorni delle barche dei soccorsi che navigano per le vie del centro e dei carrarmati che distribuiscono forme di pane. I giorni delle lacrime, per quello che si è perso, e del sudore, per cominciare a ricostruire.Colpe antiche e più recenti abusi – l’esodo dalle campagne, l’urbanizzazione e l’industrializzazione a partire dagli anni ’50 hanno progressivamente aumentato lo squilibrio idrogeologico e il rischio idraulico – compongono la lista, lunga e dibattuta, delle cause. Ma quando l’alluvione del ’66 arriva, travolge Firenze e la Toscana con la violenta insensatezza di una guerra. E come tutti i traumi, segna un prima e un dopo, cambiando ineluttabilmente il rapporto tra la città e il fiume.
Da terreno di gioco, frontiera di iniziazioni e prime nuotate per ragazzini con i pantaloni corti, da luogo di lavoro per renaioli, mugnai e conciatori, da via transito e motore di sviluppo, l’Arno si trasforma in un nemico da tenere a bada con argini e paratoie. Da fonte di acqua, energia, cibo e materie prime, il fiume, in quel novembre del ’66, si trasforma nell’amaro simbolo italiano di uno scontro, estremo, tra la rincorsa dell’uomo allo sviluppo e al consumo e i ritmi e i diritti del territorio.Ma Firenze non resta sola: arriva in città un esercito di giovani da tutta Italia e poi dalla Francia, dall’Inghilterra, dalla Norvegia, dagli Stati Uniti.
Angeli del Fango, li chiameranno.
Ma prima che angeli sono ragazzi, che con l’urgenza dei loro anni hanno deciso che bisogna andare: per salvare l’arte e la memoria della storia, per dare sfogo agli slanci ideali che riempiono il petto di ogni giovane generazione.
Ragazzi che a Firenze imparano la lingua universale della solidarietà, e che asciugando libri o pulendo il volto imbrattato dei santi degli affreschi, vivono un’avventura che li lascia un poco più adulti. Ragazzi che, solo due anni più tardi, escono di nuovo dalle proprie case per accendere la scintilla del Sessantotto.Oggi, a cinquant’anni da una tragedia che ha segnato la storia e l’immaginario italiano, la Toscana si prepara a celebrare la ricorrenza di un evento di cui le nuove generazioni hanno già perduto il ricordo. Intanto, il fiume col caratteraccio di un torrente, inesauribile ispirazione per poeti e scrittori – da Dante a Machiavelli, da Foscolo fino a D’Annunzio, Campana, Montale e Malaparte – continua a scorrere segnando il territorio, la cultura, vita quotidiana, le usanze, i ritmi e il carattere di una regione.
Da qui, dalla volontà di raccontare volti, luoghi, geografie e storie lungo il corso di un fiume simbolo dell’identità italiana, nasce il progetto A come Arno. Una piattaforma multimediale e un libro che raccolgono il percorso di documentazione realizzato lungo le sponde dai fotografi Paolo Cagnacci e Matteo Cesari, intrecciandolo, nel percorso progettato e curato da Doll’s Eye Reflex Laboratory, con il materiale iconografico d’epoca e con i contributi visivi offerti dai fotografi emergenti della Fondazione Studio Marangoni di Firenze e dagli allievi dei laboratori del progetto Arno2016, un viaggio collettivo al quale hanno partecipato oltre 2000 soci di Unicoop Firenze e una mostra che, a cinquant’anni dall’alluvione del 66, vuole essere un’occasione di riflessione e consapevolezza tra passato e presente, dedicata a tutti i cittadini toscani, perché ritrovino nel loro fiume una parte della loro memoria.
progetto fotografico Paolo Cagnacci e Matteo Cesari
direzione creativa Irene Alison
art direction Alessandra Pasquarelli
comunicazione Agnese Capalti
produzione Antonella Sava
ricerca giornalistica Cecilia Ferrara
sviluppo Jacopo Bundu
organizzazione eventi Roberta Fuorvia
traduzioni Camilla Balsamo
stagista Francesca Femia